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Ovosodo – Recensione

Batman: Il cavaliere oscuro – Recensione

Batman: Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan – Genere: azione, drammatico – USA, 2008

Una banca che ricicla denaro mafioso è assaltata da rapinatori al soldo del Joker, criminale sfregiato che si trucca come un clown e di cui si ignora l’identità. Questi si uccidono l’un l’altro per scoprire poi che uno di questi è Joker, che avvelena il direttore della banca con del gas. Batman, il paladino di Ghotam, dovrà vedersela con questo nuovo avversario che, facendo gli interessi della mafia cittadina, farà di tutto per sbarazzarsi di lui.

Nell’attesa di poterci godere il terzo capitolo della serie di Batman diretta da Nolan (The dark knight rise previsto in uscita per il prossimo luglio), torniamo a parlare dell’uomo pipistrello con quello che ritengo essere uno dei migliori titoli a lui dedicati. La serie di Batman, portata sullo schermo negli anni Ottanta con grande successo da Tim Burton (Batman – Batman: il ritorno) con i toni steampunk che lo contraddistinguono, aveva conosciuto una (giusta) battuta d’arresto con la bassa qualità di titoli sfortunati (Batman forever – Batman e Robin) era stata riportata a nuova vita da Nolan già con Batman begins. Ma è con The dark knight che il regista fa esplodere la sua creatività, regalandoci un film convincente e non pedissequamente simile ai precedenti.

La trama, anzitutto, è lunga e articolata: si muove sui registri tipici del film d’azione ma non risulta mai scontata. Ogni dettaglio è sapientemente calcolato per creare un’aspettativa e poi smentirla con una sorpresa fulminea, creando un effetto molto gradevole di suspence e spiazzamento nello spettatore. Siamo ben lontani, insomma, dalle strutture lineari e scontate da comic che puntavano solo sugli effetti speciali. Nolan infonde a un progetto che di per sé non ha nulla di originale una carica innovativa molto apprezzabile e riuscita. Tutto ciò porta con sé la costruzione di un montaggio efficace ed articolato che segue il comparto narrativo e si unisce a una prassi tecnica di elevato livello, nelle scene con effetti speciali così come in quelle che ne sono prive. Buone – quindi – sia la fotografia che la colonna sonora.

I personaggi sono ben caratterizzati e risultano sempre convincenti. Una menzione speciale va, ovviamente, al compianto Ledger che conferisce al Joker una coloritura dark estremamente contemporanea. A riguardo va fatta una precisazione: l’attore si è dovuto confrontare con un passato illustre per il personaggio che andava ad interpretare; si ricorderà che nel Batman di Tim Burton, Jack Nicholson aveva interpretato magistralmente il Joker, in modo più aderente – se vogliamo – alla tradizione dei comics. In ogni caso ritengo (nonostante io abbia amato il Jocker di Nicholson) che quello di Ledger sia stato molto efficace e – forse – più adatto a una produzione di questo genere. Il vero spirito del personaggio è forse più ironico, ma in una pellicola dai toni molto scuri com’è The dark knigt sarebbe probabilmente stato fuori luogo insistere eccessivamente su questo aspetto.

VOTO: 8/10

Hostel parte III – Recensione

Hostel part III di Scott Spiegel – Genere: horror – USA, 2011

Un addio al celibato a Las Vegas, condito con sesso e abbondanti nudità, si trasforma in un massacro.

Una trama che si può riassumere in una frase, per una delle più orripilanti produzioni degli ultimi tempi, almeno per quanto riguarda il genere horror. Per chi non avesse seguito lo sviluppo di questa trilogia, sappia che il primo capitolo – insufficiente a mio avviso, ma con qualche spunto innovativo – era stato contrabbandato come altamente rivoluzionario e al confine fra l’horror e il grottesco spinto, mentre il secondo a mio parere meglio riuscito integrava e completava il primo, potenziandone le caratteristiche. A questo punto io avrei chiuso i giochi, sigillando con un paziale successo questo binomio. Ma la logica della serialità ha imposto di produrre un terzo episodio, non fosse solo perchè non c’è il due senza il tre di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.

Dunque, una trama scontata e piatta. Ricalcando in maniera troppo fedele e stereotipata i primi due capitoli (soprattutto il primo) e cadendo quindi nell’ormai noioso impianto drammatico del survival horror, il film risulta fiacco e privo di vitalità. In un angosciante trascinamento di un’ora e trenta circa assistiamo al dispiegarsi di tutti i topos del genere slasher, abbassati di grado e stemperati. Se c’era un motivo per guardare i primi due capitoli era la crudezza di alcune scene, che qui si perde completamente e – io credo – senza alcun motivo plausibile. Cambia l’ambientazione e ci trasferiamo dagli hostels della Slovacchia alla policentrica Las Vegas. Si perde il clima oscuro e criptico dei primi due episodi per puntare sull’analisi delle dinamiche del club alla caccia umana, in maniera però troppo caricata. E’ dato un peso eccessivo alle dinamiche del gioco dei ricchi (che poteva essere appena accennato) a scapito della coponente propriamente horror. Musica insesistente o anonima, montaggio lineare e scontato, fotografia scolastica completano un film del tutto privo di spessore.

Un horror che non lo è, un gigantesco flop che andrebbe cancellato dai registri del cinema. Una enorme e gigantesca dimostrazione della stanchezza di un genere che ha fatto grande l’America.

VOTO: 3/10

Mala noche – Recensione

Mala Noche di Gus Van Sant – Genere: drammatico – USA, 1985

Walt è un giovane viveur in pieno stile anni ’80 che lavora in un non meglio identificato negozio/rigatteria. La sua vita cambierà quando incontrerà un giovane immigrato messicano, che inzierà a diventare una vera e propria ossessione.

Primo film di Gus Van Sant, presentato a posteriori a Cannes nei primi anni zero, Mala noche è un film fascinoso e oscuro come i toni bianco/nero in cui è girato. E’ la storia di un amore travolgente e indefinito, drammaticamente destinato a non vedersi mai realizzato. E’, per parafrase il titolo del film di Xavier Dolan che tanto apprezzo, un amore immaginario. Un uomo giovane, affascinante, che ha quanto gli basta per vivere, eppure d’un tratto non si sente completo. La vita di Walt non è certo delle più agiate, ma nella sua essenza flaneuristica poteva dirsi interessante e fascinosa. Basta l’arrivo di un giovanissimo messicano per scompaginare le sue priorità e farlo scivolare nel baratro dell’ossessione (bellissima la scena dove lui gattona…).

Un film efficace, che tecnicamente raccoglie già in nuce molti degli elementi che Van Sant farà esplodere nel suo masterpiece sperimentale, Elephant (9/10 su questo blog, ma la valutazione andrebbe un po’ rivista). La scelta di usare il bianco e nero in un epoca in cui il colore era ormai predominante è una scelta estetica coraggiosa, anticonformista e splendidamente azzeccata. I toni netti di luci e ombre si susseguono potenziandosi a vicenda, come già Milton aveva notato nel suo Paradiso perduto. La musica è ridotta al minimo, accompagna dolcemente in sottofondo alcune scene attraverso l’intonazione di quelli che mi sembrano canti tipici ispano-americani. La fotografia è di buona qualità, come ci si aspetterebbe da Van Sant.

Il film è veramente interessante e mi dispiace che reperirlo fosse così difficile: ho dovuto vederlo con l’audio in inglese e con i sottotitoli in francese; peccato.

VOTO: 8.50/10

Il film in una frase: Sono ridotto così male? Certo che lo sono

Act without words (I e II) – Recensione

Act without words I di Karel Reisz (su un testo di S. Beckett) – Genere: teatro dell’assurdo – Inghilterra, 2002

Act without words II  di Enda Hughes (su un testo di S. Beckett) – Genere: teatro dell’assurdo – Inghilterra, 2002

Due testi di Samuel Beckett girati in dvd e raccolti insieme agli altri capolavori del grande genio del teatro dell’assurdo nel cofanetto Beckett on film. Gli Act without words sono due storie estremamente breve (i cui testi stanno su un solo foglio) che, in maniera assolutamente muta, raccontano in chiave drammatica e al tempo stesso allegorica la condizione dell’uomo contemporaneo. Quando si compie un’operazione di questo genere c’è sempre il rischio di tradire lo spirito autentico delle opere in questione (potremmo elencare un numero imprecisato di adattamenti malriusciti) ma, in questo caso, il lavoro realizzato dai registi e dagli attori è ottimo; vale lo stesso per il capolavoro beckettiano Waiting for Godot.

Le storie sono molto semplici; si potrebbe dire che sono non-storie, da un certo punto di vista. Su uno sfondo praticamente nudo, vediamo un uomo che è gettato all’interno della scena e – in entrembi i lavori – cerca di… In effetti è già difficile descrivere che cosa facciano gli uomini di Beckett: il lavoro di decostruzione dell’impianto narrativo è completo e la definizione più adatta mi sembra questa: i personaggi vivono. Proprio in questo loro vivere, apparentemente senza senso, essi acquistano una dignità pienamente umana e assolutamente contemporanea. Essi sono il simbolo dell’uomo di Beckett per eccellenza, di cui ora vorrei tratteggiare brevemente i caratteri.

Il personaggio/uomo portato in scena dal drammaturgo è, come ho detto prima, gettato nel senso heideggeriano del termine. L’uomo contemporaneo è buttato violentemente in un mondo che non riconosce più suo, un mondo desacralizzato e snaturato dalla sua dimensione animistico-sacrale da Nietzsche in poi. E’ un mondo senza punti di riferimento, spazzati via violentemente dal terrore delle guerre mondiali e dai campi di sterminio. E’ un uomo senza Dio ma che ancora lo cerca. E di presenza sacrale ne vediamo molta soprattutto in Act without words I, ma più che il Dio cristiano l’entità con cui abbiamo a che fare sembra un malvagio genio cartesiano che si prende gioco dell’uomo-Tantalo.

I testi sono densi di significati e quanto ho riportato qui vuole essere solo un esempio, un semplice stimolo alla visione. I due brevi filmati si trovano molto facilmente su youtube e credo che possano essere una visione illuminante e folgorante per chi voglia avvicinarsi a questo genere di contenuti.

VOTO: 9/10

Orwell 1984 – Recensione

Orwell 1984 di M. Radford – Genere: distopico – Gran Bretagna, 1984

Winston Smith conduce una squallida esistenza nel superstato di Oceania. L’ambientazione è nella Londra del 1984, la città è stata stravolta dalla rivoluzione e dalle guerre atomiche. Winston lavora in un cubicolo presso il Ministero della Verità: il suo compito è quello di riscrivere la storia in conformità con l’ordine del giorno che i suoi superiori, senza alcun contatto umano, gli comunicano tramite un impianto di posta pneumatica. Il capo indiscusso del regime è il Grande Fratello, il cui volto invade i teleschermi (muniti di telecamere nascoste, in modo da controllare capillarmente la popolazione) e i manifesti della propaganda.

Tratto dal romanzo-capolavoro di George Orwell, Nineteeneigthyfour (che insieme a Fahrenheit 451 costituisce l’apice della distopia moderna), il film di Radford si presenta come una riproposizione fedele ma non eccessivamente pedissequa del lavoro scrittorio da cui trae ispirazioni. Frequenti sono le citazioni dirette alla penna dello scrittore britannico, ma il film presenta anche alcune peculiari differenze rispetto al romanzo. Questo fatto, se da una parte evita all’opera di scadere nell’emulazione completa, cambia alcuni passaggi narrativi di primaria importanza nel libro. Giusto per citare alcune differenze macroscopiche:

  • Nel romanzo, sia Winston che Julia visitano O’Brien nella sua residenza privata, per informarlo che vogliono aderire alla Fratellanza. Nel film, Winston incontra da solo O’Brien, e lo scopo del loro incontro rimane ambiguo; O’Brien non rivela esplicitamente la sua affiliazione alla Resistenza come fa nel romanzo.
  • Nel film non sono mai menzionate le ideologie del “Neo-Bolscevismo” e del “Culto della Morte” che dominano gli altri Superstati (Eurasia ed Estasia).
  • Nel film il libro segreto della Resistenza Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, scritto da Goldstein, viene consegnato direttamente da O’Brien a Winston, astutamente mascherato da Dizionario della neolingua. Nel romanzo viene consegnato qualche giorno dopo, in una cartella, nel pieno del brusio di un comizio

Fatte salve queste discrepanze, l’opera filmica è un buon adattamento – io credo – di quella letteraria. L’atmosfera fatiscente della Londra bombardata, le distese di slums dove vivono i prolet e il rigorismo totalitario del Grande Fratello sono ripresi in tutta la loro drammatica e profetica potenza. La dimensione visuale regalata dal film, in questo caso, potenzia fortemente il patrimonio immaginativo che Orwell aveva già tinteggiato efficacemente nella sua opera. I personaggi sono ben caratterizzati e riconoscibili nel passaggio carta/pellicola: Winston è il burocrate emaciato che ci immaginiamo quando leggiamo del suo malessere e Julia acquista, grazie alla discreta fotografia, un fascino mediocre che si ricava pienamente dall’aria sordida (eppure così romantica) del suo rapporto con Smith. O’Brein  è certamente il personaggio più ambiguo e, a mio avviso, meglio riuscito della trasposizione: ha un fascino malvagio nella sua disposizione altalenante fra l’accondiscendenza e l’opposizione (sfumatura questa che nel romanzo non compare assolutamente…).

Il comprarto sonoro è ridotto al minimo, ma non se ne sente la mancanza. La densità concettuale dell’opera orwelliana rivive degnamente in questa riproposizione post-moderna che ne garantisce l’integrità concettuale. Si perde l’esigenza della musica, che si disperde nello schiamazzo assordante dei quotidiani minuti d’odio. La fotografia è discreta, ma di qualità comunque accettabile in un contesto che privilegia giustamente (secondo me) la dimensione concettuale. Credo che, a differenza della riproposizione del romanzo di Bradbury, il film 1984 sia meglio riuscito e rispetti maggiormente il clima in cui l’opera stessa ha preso forma. Da vedere assolutamente, sia per chi ha amato l’opera omonima sia per chi si avvicina per la prima volta al Grande Fratello

VOTO: 8/10

Il film in una frase: Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente. […] Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere.

La Cosa – Recensione

La cosa di Jhon Carpenter – Genere: horror/fantascienza – USA, 1982.

Antartide, 1982. In una base militare americana, dove la vita scorre relativamente tranquilla, si riceve la visita indesiderata di un elicottero canadese, che cerca disperatamente di abbattere un cane husky. Il conflitto a fuoco vedrà la peggio dei canadesi, ma ben presto i protagonisti si accorgeranno che gli ormai defunti fucilatori stavano cercando di salvargli la pelle…

Pietra miliare del genere sci-fi con risvolti horror, film imprescindibile per gli appassionati di genere, La cosa di Carpenter è un film incredibilmente ampio e intertestuale: è stato recentemente girato un omonimo prequel (che segue, appunto, le avventure dei canadesi) e da quest’opera è stato tratto un fortunato e omonimo videogioco per pc. Non bastasse, la struttura narrativa ricalca pienamente le suggestioni di tutto un filone di testi fantascientifici tipicamente ascrivibili agli anni ’50 del Novecento, con una passione per le pellicole in bianco e nero sugli alieni (siamo negli anni in cui prenderà forma il progetto di una “corsa allo spazio” da parte delle due superpotenze).

Il fim, va detto, risente degli anni che ha. A trent’anni (quasi) di distanza dal momento delle riprese, la Cosa di Carpenter perde una parte importante del suo fascino, ma si percepisce in questo freddo clima antartico che doveva essere stato qualcosa di più, che doveva aver suggestionato e impressionato un bel po’ di spettatori. E in effetti è così: il lavoro di Carpenter (uno dei padri degli horror “d’intrattenimento) ha proprio il sapore di un prodotto disimpegnato, ma non completamente acerebrato. Non è un film idiota, ma rimane trivialmente interessante proprio perchè – rispetto agli slasher che fioccavano all’epoca – tiene lo spettatore su un filo di ansietà molto più sottile.

L’azione registica si snoda molto bene lungo la trama e – attraverso una fotografia dignitosissima per un horror anni ’80 – l’azione si segue piacevolmente e non risulta mai eccessivamente noiosa; certo, a tratti la pellicola riesce un po’ scontata ma riesce ad intrattenere comunque piuttosto bene. Il film, insomma, non brilla certamente per meriti tecnici particolari ma merita ancora oggi di essere visto per due motivi principali: ha un forte valore storico come prodotto “di massa” visto che riflette lo spirito di un certo cinema di una certa epoca e – soprattutto – riprende una tradizione antecedente ampliandone i contenuti e approfondendone le dinamiche. Narrativamente, la storia non risulta eccentrica rispetto alle produzioni che ho precedentemente citate, ma segna un deciso passo avanti nella qualità complessiva dell’opera (sopratutto nell’uso degli effetti speciali) e presenta l’elemento alieno come una realtà pandemica e polimorfa, mentre il filone sci-fi degli anni ’50 presentava il problema in forma di “invasione da parte di organismi umanoidi”. Potremmo dire, una revisione più moderna di una vecchia storia. Comunque consigliato

VOTO: 6/10

Il film in una frase: Nessuno… si fida più di nessuno ormai… e siamo tutti molto stanchi…

Alexandra’s project – Recensione

Alexandra’s project di Rolf de Heer – Genere: drammatico – USA, 2003

Alexandra è una donna profondamente infelice della vita che trascorre con il marito e con i due figli piccoli. E’ il giorno del compleanno di suo marito e lei decide di preparargli una sorpresa molto, molto speciale: gli fa trovare al suo ritorno una casa deserta e un video con scritto “guardami”.

Alexandra’s project è un film che avevo nel cassetto da qualche tempo, pronto per essere visto. Ieri sera mi sono deciso e, tutto sommato, ne è valsa la pena. Il registra affronta in modo soddisfacente il complesso e un po’ inflazionato rapporto di coppia, mettendone crudamente in luce le ipocrisie e le ipocondrie depressive. La storia di Alexandra ricalca drammaticamente quella di moltre altre donne nella sua condizione, ma nella sua rivalsa tutta giocata sull’oggetto del desiderio del marito c’è ben altro: la necessità di autoaffermazione, sostanzialmente.

La trama è avvincente e, almeno nella prima parte, abbastanza originale. Soltanto sul finale la struttura narrativa sembra cedere all’usura del tempo e comincia a scivolare nel banale, nel già visto diventando un piccolo cliché, per fortuna soltanto in chiusura; peccato che il finale non sia per nulla originale. Se il film si smarrisce sul piano narrativo, non brilla certo per la qualità della fotografia – soltanto discreta – ma si fa ricordare per la scelta di abolire praticamente del tutto il comparto sonoro, con un effetto comunicativo ben riuscito e convincente. Tecnicamente l’elemento più interessante è – a mio avviso – il totale basarsi del film sulla struttura meta-visiva, tale per cui la moglie dialoga con il marito attraverso un video. In questo modo noi siamo doppiamente spettatori: vediamo il film e – al contempo – vediamo il video insieme al marito, non sapendo che cosa contenga.

Vediamo anche una terza storia, di cui siamo speattatori partecipanti: il dramma esistenziale di Alex, che utilizza il video come l’ultimo mezzo di affermare sé stessa, di assicurarsi un’esistenza al di fuori di quella ingombrante del marito, di rivendicare un lebenshraum (spazio vitale) che possa essere solo suo. Un’invettiva visiva che manifesta la necessità della Donna contemporanea di ritagliarsi uno spazio al di fuori della casa e della vita confezionata per lei dal marito. Il punto interessante del film, poi, è che crea una spiazzante incapacità (nello spettatore) di formulare un giudizio etico: la donna sottomessa, ha – in fin dei conti – il diritto di concepire una così malata e schizofrenica vendetta?

VOTO: 7/10

Shortbus – Recensione

Shortbus: dove tutto è permesso di J.C. Mitchell – Genere: drammatico – USA, 2006

Sofia è una sessuologa che non ha mai avuto un orgasmo e in tanti anni di matrimonio ha sempre finto durante i rapporti con suo marito Rob. James e Jamie, una coppia di ragazzi gay, stanno cercando di allargare il loro rapporto dal punta di vista sessuale. Severin è una ragazza sola e complessata che si prostituisce nel ruolo di femmina dominatrice al servizio di improbabili clienti masochisti. Tutti quanti convergono allo Shortbus, colorato e grottesco locale dove, come dice appunto il titolo, tutto è permesso.

Non poteva mancare questo film in una serie di post sul cinema e sull’estetica del cinema contemporaneo. Shortbus, presentato fuori concorso al Festival di Cannes, segna un’epoca rompendo gli schemi di tutta una certa tradizione di film e esplodendo come una bomba nel panorama cinematografico. Anzitutto, dopo aver visto il film, si potrebbe essere colti dalla smania improvvisa ma credo immotivata, di classificare il film sotto l’etichetta di “erotico” che di solito compete a titoli di dubbio gusto estetico, come quelli che appartengono al filone della Commedia Sexy all’italiana. Diciamo che fra un film della Fenech e di Alvaro Vitali e Shortubs c’è la stessa differenza che c’è fra la foto su un giornale pornografico e un nudo artistico di Elmut Newton, per capirci.

Shortubs si nutre della sessualità, ci gioca con estrema sapienza senza mai scadere nel banale. Riesce a sorprendere e a impressionare. E’ un film grottesco perchè compone una enciclopedia visiva delle manifestazioni sessuali del corpo (sia per quello che riguarda le attrazioni di genere sia per quanto concerne l’estremo campionario feticista). A tratti, forse, spinge un po’ troppo sull’acceleratore ma come tutti i grandi film si basa sull’eccesso e sull’ebbrezza dionisiaca del divenire del corpo. E’ un testo grottesco anche perchè gioca sui toni, unendo momenti particolarmente ilari e divertenti a sferzate di grande sentimentalismo, ancorché mai banale. Dietro a ogni risata, in Shortubs si nasconde una profonda analisi dei meccanismi che reggono il nostro agire e il nostro formare delle coppie; le unità sentimentali del film (coppie, threesome o il rapporto dominato-dominatrice) sono la parodia disincantata della famiglia e della sessualità borghese.

La trama è complessa e profondamente articolata, grazie anche alla compenetrazione progressiva dei piani narrativi che, partendo come entità separate unite solo dalla pulsione sessuali, procedono a fondersi progressivamente, facendoci smarrire i confini dei personaggi a favore della contemplazione di un grande elogio dell’Amore e del Sesso. I personaggi sono credibili, convincenti, sfaccettati, mai banali e ben caratterizzati pur nella loro non-scontatezza. La colonna sonora è moderna, metropolitana e camaleonticamente calzante ai vari registri narrativi con cui il film gioca in modo estremamente pantagruelico. La fotografia è buona, certamente non eccelsa ma il film è così convicente e ben saldo sulle sue premesse ontologiche che questa risulta poco più di una sbavatura.

Shortbus meriterebbe di essere approfondito di più: è uno di quei film che a ogni visione aumenta il patrimonio già ampio delle sue valenze intrepretative. In conclusione, uno dei miglior film degli ultimi dieci anni.

VOTO: 10/10

Il film in una frase: “E’ la prima volta che qualcuno ti canta l’inno nazionale nel culo?”    “No”.